sabato 29 ottobre 2011

Blue dawn

Un’altra volta, erano stati svegliati nel cuore della notte un’altra volta. Ormai tutti sapevano da dove provenissero quei rumori, e s’erano scambiati qualche sguardo preoccupato, in silenzio, quando si erano ritrovati davanti il solito edificio dalle pareti bianche. Ognuno contava i propri respiri.
Dentro stava Maurice. Aveva sognato ancora. Sognava spesso, quasi ogni notte, e la mattina dopo raccontava tutto nella sala che avevano adibito a mensa comune, per stare meno soli. Raccontava di città meravigliose sulla superficie di Marte, città talmente lontane da esser a un paio di oceani di distanza, e ne conosceva ogni viottolo e ogni angolo, e ne aveva nostalgia, e a vederlo parlare, forse, qualcuno dei presenti ci credeva, che quei posti esistessero sul serio. Narrava di meravigliosi palazzi sulle lune di Giove, e voleva prendere il telescopio e guardarli; ne aveva contato le guglie, e le riconosceva una per una. Si commuoveva poi quando parlava delle strade con delle viste meravigliose tra gli asteroidi, e con trasporto ci parlava dei ponti ancora bellissimi sui fiumi oramai secchi del pianeta rosso. A volte faceva degli incubi orribili, Maurice. Non li raccontava mai, ma la notte urlava, e aveva attacchi di panico, e dovevano andare, accendergli la luce e tranquillizzarlo per un po’. Poi si risdraiava e chiudeva gli occhi, ma in quelle notti non dormiva più.
Quella notte si erano alzati tutti perché non urlava, come al solito. C’era qualcosa di diverso.
Maurice singhiozzava. Disperato. Piangeva e a volte gli mancava il respiro. Entrarono in due, accesero la luce; Maurice stava lì, sdraiato a letto, piangeva fortissimo, ma dormiva ancora. Dormiva e piangeva, e le grosse lacrime che gli bagnavano il viso non lo disturbavano. Decisero di aspettare che finisse, ma non si calmò prima di un’ora, e l’alba azzurra stava già sorgendo.
Poche ore dopo Maurice si presentò nella sala mensa, taciturno. Qualcuno glielo chiese, cosa avesse sognato.
«Ho sognato la Terra», disse.

venerdì 21 ottobre 2011

L'edizione di mezzanotte

Credere nel destino è sminuire la bellezza delle coincidenze.
Così pensava Roy all’interno del suo piccolo ufficio dentro il suo piccolo studio di registrazione della sua piccola tv locale, in Nord America. Se avesse creduto nell’esistenza del destino tutto ciò che nel mondo, o meglio, fuori del mondo, stava accadendo gli sarebbe parso come un enorme, distruttivo cinque da un misterioso demiurgo, o una presa per il culo.
Il suo canale privato era andato in fallimento: pochi ascolti, la concorrenza delle multinazionali, forse anche poca intraprendenza, Roy non sapeva ben dire, un tale concorso di cause diverse; fatto sta che la chiusura era imminente, e aveva stabilito un giorno e deciso di chiudere col programma di picco degli ascolti, il telegiornale della notte. Il destino, o meglio le coincidenze, ripeteva a se stesso Roy, avevano fatto sì che quel telegiornale fosse però l’ultimo telegiornale fra tutti.
Dallo spazio un enorme meteorite minacciava la terra. Era stato avvistato da mesi e mesi prima, e le più fantasiose teorie dei film del cinema erano state pensate, alcune tentate, ma tutte erano risultate fallimentari. Il panico generale aveva fatto il suo decorso comune: speranza nei governi, incredulità, negazione, rabbia, delirio, psicosi religiose, fino ad arrivare ad una bieca, grigia rassegnazione. La gente vedeva ormai in alcune ore del giorno un puntino luminoso nel cielo, e lo riconosceva, il meteorite. Nessuno, questa volta, aveva avuto il coraggio di dare un nome alla cosa che avrebbe distrutto la vita sulla terra.
Che il telegiornale della tv di Roy fosse l’ultimo era, per l’appunto, una fortunata coincidenza. Fortunatissima. Nella sua stanza Roy fumava (aveva anche iniziato a fumare, tanto, oramai), e aspettava che il presentatore arrivasse. Era l’ultimo rimasto, insieme ad un giovane cameraman, tra i dipendenti. Gli altri, ovviamente, gli ultimi giorni sulla terra hanno preferito dare di matto, o unirsi alle pazzesche orge collettive, ai furti, alla vita derelitta, o stare con i propri cari; Peter, il presentatore, non poteva.
Arrivò poco prima di mezzanotte, trafelato, chiuso nel giubbottone blu. Il cameraman corse dentro qualche minuto dopo, parlando di quanto fosse grosso e luminoso il meteorite, nel cielo notturno. Tutto fu pronto in poco, pochissimo tempo. Peter si posizionò dietro il bancone, col suo abito migliore, Roy di fianco il cameraman. Peter iniziò parlando di ciò che già tutti conoscevano, e continuò, impeccabile.
Fino all’ultimo servizio senza sbagliare un commento, senza un balbettio, senza un accento sbagliato. Poi, alla Fine, guardando dritto in camera, salutò, con gli occhi che riflettevano lui stesso, e l’umanità intera

«Signori e signore; uomini, donne; è stato tutto bellissimo. Vi ringrazio. Buonanotte.»
Roy gli fece il gesto dell’ok con l’indice e il pollice a cerchio, sorrideva piano. Poi lo schermo si riempì di bande multicolori: verde, blu, rossa, e nera.

venerdì 14 ottobre 2011

14 Ottobre, 1571

La piccola imbarcazione veniva rimbalzata di porto in porto. Qualche giorno prima si era fermata in un villaggio di pescatori della Grecia; nonostante fossero degli ex corsari e infedeli, erano stati gentili e avevano pagato loro tutto ciò che avevano preso, ben poco in realtà: gallette, pesce sotto sale, acqua potabile. Poi si erano diretti verso nord, sul mare, vedendosi sfrecciare di fianco dei galeoni troppo grossi per essere abbordati che battevano bandiere veneziane e asburgiche, pesci grossi, uomini ubriachi e felici che al piccolo equipaggio barbaresco facevano gesti osceni dal ponte di prua. Neanche un piccolo mercantile da depredare, solo grossi galeoni da guerra, bandiere di tre colori di posti lontani, pelli bianchissime, lingue dure e fredde.

Mentre l’equipaggio cominciava a mormorare dubbioso, il capitano Murad Ali non si spiegava questo continuo viavai, questi fuochi sempre accesi sulle coste della penisola italica, canti di gioia e banchetti enormi, neanche un mercantile come si deve per mare. Chiese al nostromo di calcolare la data sul calendario, per sicurezza; il Natale cristiano era ancora lontano. Un giorno approdarono nei pressi del santuario di San Benedetto, e andarono verso l’entroterra alla ricerca di provviste. Murad Ali si fece strada tra i vialetti della città fortificata, fin quando trovò un altro musulmano e lo fermò con una mano. Tahrim, il siriano Tahrim, ci mise un po’ a convincere il suo signore, un marrano dall’aria stupida, di lasciarlo parlare per pochi minuti con lo straniero. Così Murad Ali venne a sapere di ciò che era successo sette giorni prima in Grecia, e si spiegò un sacco di curiosi fatti avvenuti durante l’ultima parte del loro viaggio. Imbarazzato, triste e amareggiato, ringraziò affettuosamente il povero Tahrim, che tanto avrebbe voluto tornare al suo campo in Siria, e si avviò a passo rapido verso la spiaggia. Trovò i suoi compagni che tiravano le pietre a delle anatre e sonnecchiavano sotto l’ultimo tiepido sole dell’anno; li rimise sulla barca, e salparono veloci.

venerdì 7 ottobre 2011

Sul ponte della Marquesa

Non sentiamo più i flauti e i tamburi degli infedeli. Sulla Real sono stati issati i vessilli della città di Lepanto, e noi tutti abbiamo sollevato le croci. Il nome di Dio eretico scritto mille e mille volte sulla bandiera della Sultana impallidisce di fronte al Crocifisso della Santissima Lega. Il vento ora è cambiato. Dio è con noi.
Non li sentiamo perché il vento è contrario, ci spinge verso di loro, ma Paulo dall’albero maestro dice di aver visto i sardi sparare sui cani infedeli con gli archibugi, e che questi cadono come mosche. Dice che la Sultana è assediata, e preghiamo il Signore affinché questo vento che ci sospinge non ci faccia morire invano.
Paulo dice che i musulmani sono molti di più. I veneziani scappano dal conflitto, la Capitana di Doria esce dalla formazione, rompendo le fila. Siamo spacciati, penso io, ma non lo dico a Miguel, lo spagnolo. Sorride amaro. E’ voluto uscire sul ponte a tutti i costi, ha detto che preferisce morire per il suo Dio e il suo Re che stare sottocoperta. Gli sorrido di rimando. Ci avviciniamo sempre di più alle galee ottomane. Il comandante de Machado ci richiama all’ordine. Le galee lontane cozzano e urlano come mostri marini. Ci siamo quasi.

Miguel è stato colpito tre volte, da tre proiettili. Due l’hanno colpito al petto, l’altro al braccio sinistro; non riesce più a muoverlo, ma è contento lo stesso: dice che col destro potrà ancora scrivere. Mentre tornavamo verso Messina mi ha confidato ciò che vuole scrivere: un cavaliere un po’ tocco, Alfonso, o forse Alonso, non ricordo, e della sua ostinazione nel combattere dei giganti con le braccia rotanti, o forse dei mulini a vento; non ricordo. Probabilmente delirava per la febbre alta.

lunedì 26 settembre 2011

Il Fuoco è spento, nella Torre Bassa

Mi chiamo Alonso Archibaldo da Sousa, e sono un Guardiano del Fuoco. Vivo nella Torre Alta, quella più lontana dalla strada, quella a picco sul mare, con dietro il monte Lancia; per arrivare bisogna passare di fianco alla Torre Bassa, gemella, e percorrere tutta la spiaggia di Porto Plata: è un piccolo golfo, qualche ora di cammino, e quì si raccoglie qui un’acqua tanto salata che dicono che nessuno vi sia mai annegato. La notte accendo un grande fuoco nel terzo piano, il più alto, della mia Torre, e guardo il fuoco accendersi nella Torre Bassa, così sorrido, e penso che è grazie a me che tutto funziona, che le navi capiscono che, a qualche miglia più a sud, troveranno la Città luminosa, un letto caldo, e, se non sono troppo stanchi, una prostituta non troppo vecchia, o non troppo giovane. Accendo il grande fuoco, e poi resto a guardarlo: d’inverno mi scalda, estate mi incanta. Durante il giorno taglio la legna dagli alberi della montagna, vado a caccia o pesco, controllo le navi che vengono e che vanno. E’ un mestiere importante, per tutti, e per me.

Il Guardiano dell’altra torre si chiama Mario Costante, è finito lì per una questione di debiti di gioco, nonostante egli dica di essere stato fregato. Con lui, Mario Costante, non c’è mai stato un grande rapporto: è un sognatore, della peggior specie, e sono stato sempre io ad accendere il fuoco per primo, mentre lui mi imitava solo qualche minuto dopo. Abbiamo mangiato insieme, qualche volta, a metà strada tra le due torri, ma lui parla poco; per tutto il tempo, seduto sulla spiaggia argentata, guardava il mare, forse cercava la sua terra lontana, forse la sua donna lontana; mi ha parlato di lei qualche volta, ma non riusciva mai a finire la frase, come se, ricordando di lei ad alta voce, si aggrappasse a quell’immagine che aveva appena evocato, e, improvvisamente gelosissimo, non la volesse dividere neanche col vento, o con l’oceano. Per questo e altri motivi ho iniziato ad evitare la sua compagnia: sono un tipo molto solitario e Mario Costante non è proprio una persona con la quale io possa avere un buon rapporto.

Il terzo giorno della scorsa settimana ho acceso il mio fuoco, bruciando i rami migliori perché c’era luna nuova e tutto sarebbe diventato scuro, volevo essere sicuro che il mio segnale venisse visto da lontanissimo. Ho atteso qualche minuto e ancora, dalla Torre Bassa, neanche una scintilla. Ho pensato che Mario Costante si fosse addormentato, e ho urlato dalla cima della torre il suo nome, sperando che il vento favorevole glielo portasse e lo destasse; niente. Per tutta la notte la Torre Bassa è rimasta buia e tetra, un’ombra sul mare. Non mi piaceva per niente, ed ero infuriato con Mario Costante. Avevo pensato di andare il mattino dopo subito alla sua Torre per arrabbiarmi e forse minacciare di denunciarlo all’alto comando, ma la notte come unico Fuoco mi aveva estenuato la mente e il corpo, così son caduto addormentato fino al mezzodì. Appena sveglio non ho avuto la premura di andare a fargli capire la portata del suo errore, così anche per quel giorno son rimasto nella Torre Alta a vegliare, ho cacciato un po’ di selvaggina per la cena e ho aspettato il tramonto per alimentare le ceneri che ancora ardevano. Il fuoco era già visibile da un sacco di tempo, ma dall’altra torre ancora nessun segno. Fuori di me, sono sceso dalla Torre Alta, premurandomi che il Fuoco restasse acceso per ore e ore anche dopo che io fossi andato via, e ho corso per la spiaggia che vedevo a malapena, diretto verso la Torre di Mario Costante. Durante la strada mi son fatto le idee più strane su quel che avrei trovato nella Torre Bassa, anche le idee peggiori; ma mai avrei pensato a un tale epilogo.

Arrivato alla Torre Bassa, ho notato per primo la totale assenza di luce; non solo la fiamma era spenta, ma nessuna torcia, nessun fuocherello ardeva vicino o dentro la torre, solo dei tizzoni, sotto la cenere; il vento si era alzato e soffiava tra le feritoie facendo suoni cupi. Ho acceso una torcia e ho controllato a terra: non c’era nessuna traccia di Mario Costante, se non qualche vecchia impronta. Poi l’ho vista. A terra giaceva la borsa di cuoio della corrispondenza: l’altro dei motivi che portava me e Mario Costante a incontrarci era la posta, che consegnavano a lui e lui doveva passare a me. Per me, lettere di parenti, qualche amico, che col tempo si erano diradate fino a sfiorare il silenzio, mentre per lui, a suo dire, non arrivava mai niente. Quella volta, evidentemente, qualcosa era cambiato. Dentro la sacca di cuoio c’erano decine e decine di lettere ingiallite. Mi son chinato a controllarle, le date erano vicine e lontane nel tempo, ma la calligrafia era la stessa, la firma, il nome uguale, Maria. Erano tutte lettere d’amore, poetiche o dolci, altre arrabbiate, altre deluse, corte o lunghe, scritte tutte col medesimo inchiostro nero. L’ultima lettera aperta, quella in cima al mucchio, era brevissima, diceva così:

«Sempre, ma oggi di più»

Questo è l’ultimo segno che ebbi della persona e dell'esistenza di Mario Costante.

Ho iniziato a pensare: avrei tanto voluto denunciarlo al sergente, ma no, nessun sergente, era una diserzione terribile, avrei richiesto direttamente l’intervento del Capitano, o udienza al Re della Città luminosa, se solo qualcuno mi avesse sostituito alla Torre Alta io avrei, avrei… Ma poi ho smesso di pensare tutte queste cose, e non mi sentivo più arrabbiato. Soltanto, mi sentivo terribilmente solo. Così, lentamente, con la borsa di cuoio tra le braccia, sono tornato verso la Torre Alta, camminando sotto una falce di luna affilatissima. Sono arrivato accanto al mio Fuoco, e mi sono seduto con le gambe incrociate. Fino all’arrivo dell’alba, una ad una, ho bruciato tutte le lettere di Maria: le guardavo cambiare colore, dagli angoli fino al centro, dividersi, contorcersi, svanire nell’aria.

lunedì 19 settembre 2011

Berquilla

[facendo spazio su un vecchio hard disk si possono trovare cose innominabili, cose sepolte sotto massi franati di dati e anni passati; questo racconto è una di loro, scritto in piena adolescenza e in - palese - periodo Lovecraft]

Il vecchio Mimmìa si è impiccato. L’hanno trovato in camera sua, con una cintola al collo e una sedia rovesciata sotto i piedi, una lettera terribile scritta con mano tremolante in tasca; l’hanno trovato dopo qualche giorno che non respirava più, perché il vecchio Mimmìa viveva da solo e non usciva quasi mai. L’uomo più vecchio del paese, si portava bene il suo centinaio, camminava e parlava ancora. Nessuno sa perché l’abbia fatto, nessuno sa come a cent’anni suonati si possa trovare il coraggio di tanto. Io ho una mia idea.
Voglio raccontarvi una storia. E’ la storia di un paese ridente, un paesino diroccato su una collina, tra il nulla. E’ la storia che i vecchi amano raccontare d’estate quando la calura li costringe a star fuori, ma mai più lontani della porta di casa, con una sedia a parlare. La storia di Berquilla.
Si dice che prima il paesino non fosse così. Meno di un secolo prima, quando Mimmìa era ancora un bambino, la parte alta del paese era abitata da genti non originarie di Berquilla, sicuramente neanche della regione, probabilmente neanche della nazione; istranzos li chiamavano i meno coraggiosi, estranei.
Avevano mandato via tutti gli altri dalla sommità della collina senza usare la forza: la gente aveva timore di loro. Si racconta che avessero uno sguardo glaciale e che facessero dimenticare ogni ricordo felice solo a star loro davanti, e che tutti i venerdì notte grandi falò venissero alimentati da qualcosa che produceva odori terribili e piogge nere. Nessuno parla o vuole parlare delle ombre e delle figure che danzavano attorno ai fuochi che i più temerari si erano arrischiati a scorgere.
Dimonios li chiamavano i più coraggiosi, diavoli.
Dopo interminabili anni passati nell’insalubre e palustre terreno sotto la collina, gli abitanti di Berquilla videro il loro desiderio avverarsi. Un enorme masso si staccò dal lato della montagna e schiacciò tutto ciò che stava sopra la collina, terreni, case, ambigue statue e oscuri simulacri. Secondo la leggenda, dopo ciò gli abitanti dei piedi della collina si spostarono in massa sopra il piccolo rilievo, costruendo esattamente sopra il masso franato la nuova chiesa dei Santi.
Ma voglio raccontarvi un’altra storia. E’ la storia di un paese condannato, un paesino solo su una collina, lontano da ogni luce. E’ la storia che nessun vecchio ricorda di buon grado e solo pochi tra loro la raccontano, sottovoce, attorno a un tavolo di un bar fumoso e deserto le notti d’inverno, ma solo dopo tanti bicchieri. La storia di Berquilla.
Si dice che quella notte, la notte che il masso cadde, non tutto venne distrutto. Ma ormai gli abitanti dei piedi della collina, troppo infervorati per cedere dopo quel segno quasi divino, non erano intenzionati a fermarsi davanti a niente. Bruciarono le case rimanenti sul capo della collina, chiudendo i loro abitanti all’interno di esse. Nessuno udì alcun urlo quella notte. Solo dopo un giorno, quando ci si decise a spostare le ceneri, si iniziò a presentire il vero terrore. Sotto una delle case trovarono un passaggio sotterraneo ancora scoperto, che portava in oscuri meandri che nessuno si sentì di esplorare, ma tutti furono d’accordo nel sigillare quell’antro demoniaco e tutti coloro che dentro si erano rifugiati.
Per mesi nessuno riuscì a dormire sulla cima della collina, svegliato da incubi e urla strazianti provenienti dal sottosuolo. Le urla si susseguivano ogni notte; chiamavano ognuno degli abitanti col proprio nome di battesimo, incessantemente. Qualcuno impazzì quelle notti; pareva che non fossero pochi coloro che chiamavano dalle profondità, e che non avrebbero accennato a smettere. Ma dopo un po’ le urla si affievolirono, gli anni passarono e alcuni si dimenticarono o fecero finta di farlo. Il paese si ampliò e crebbe, fino a raggiungere uno, due, tremila abitanti.
Nessuno oggi si ricorda di questa storia, o nessuno vuole ricordare. Da qualche settimana degli operai lavorano nella piazza principale, proprio quella della chiesa dei Santi, per dei problemi alla rete fognaria, troppo spesso scoperta alle intemperie. Gli ordini sono stati categorici, scavare e portare più a fondo le tubature. Solo l’altro ieri hanno aperto però una fenditura nella roccia, la roccia che franò. Ero presente come supervisore ai lavori, e ho visto, sentito e percepito tutto ciò che è uscito dall’anfratto nella roccia. Un liquido nerastro è colato dal bordo spaccato della fenditura, e inizialmente sembrava di intravedere una strana luminescenza rossa in fondo a quel buco, che era già più profondo di quanto si intendesse scavare. Ho deciso di interrompere i lavori in seguito al suicidio di Mimmìa. Vi ho parlato della lettera, credo. Ma non vi ho parlato di ciò che vi era scritto.
Le urla, le sentite? Sono tornate e mi chiamano, mi chiamano ogni notte.
Sapete, mi sta succedendo un fatto curioso di notte… Mentre dormo, sono svegliato da tremendi colpi che sembrano provenire da sotto terra, e, altre volte, sento scandire il mio nome da moltitudini di voci terribili. Mi dico che non è possibile, che sono stato suggestionato dalle vecchie storie; ma ora ne sono certo, le ho catturate con un registratore portatile: le voci esistono. E non se ne andranno finché non mi avranno.

martedì 13 settembre 2011

Magnitudine (assoluta)

La principessa stava sdraiata su una collina erbosa; il caldo incessante di quel luglio la teneva fuori fino a tardi, a contare i punti luminosi nel cielo, insieme al cane.
«Lo sai che la maggior parte di quelle stelle è morta da tempo immemore?»
Si guardarono negli occhi.
«Lo sai che a un cane non sarebbe concesso parlarmi?», disse lei.
Non sarebbero tornati a palazzo. Ormai in ogni sala giacevano corpi ammassati, e nessuno respirava più.
Il perché proprio quella ragazzina e il cane fossero rimasti vivi mentre il mondo moriva di un morbo rosso, misterioso e incurabile, non ci è dato saperlo. Quella sera, però, il cielo era luminosissimo e Marte vegliava sulla Terra che, a guardarla dallo spazio, si sarebbe detto si stesse lentamente spegnendo.
Rimasero a guardarlo per ore; poi, all’alba, si incamminarono verso il burrone.

mercoledì 31 agosto 2011

Un'aria

Mi trovavo nel mio appartamento nel centro di Roma. L’avevo comprato da poco, e arredato finemente; vivevo da solo. Erano le sette, forse le sette e mezza, e dalla finestra del mio studio entravano i rumori e le voci dell’ora di cena: sostanzialmente, voci di donna, bambini, e stoviglie che stridono, in un momento mi è parso di sentire anche un piatto che andava in frantumi, in mille pezzi. Il sole non era ancora tramontato, ma il palazzo di fronte mi impediva di guardarlo mentre portava a compimento il suo viaggio quotidiano. Questa, forse, era l’unica pecca di quel luogo. Non facevo caso a niente in particolare; semplicemente, leggevo ascoltando l’indaffararsi delle persone che non conoscevo e forse non avrei mai conosciuto. (In realtà, poi, qualcuno lo conobbi: il vecchio Ernesto, del terzo piano, reduce di guerra. Morto un paio d’anni fa, suicida.)
Mentre mi pareva di sentire distintamente il rumore dell’acqua che bolliva, dell’olio che friggeva, di bicchieri o forse calici riempiti, ecco, tra tutti questi rumori, udii un suono. Converrete con me che non c’è niente che colpisca così tanto, in mezzo al rumore disordinato e sfuggente, come la limpidezza di un suono. Si udiva, distinto e un po’ timido, acuto.
Musicale.
Doveva essere per forza una nota musicale. Così poggiai sulla scrivania il libro che stavo leggendo, e uscii sulla terrazza. La nota musicale proseguiva, in un crescendo di volume deciso, ma nessuno pareva essersene accorto. Ero l’unica persona che cercava quel suono misterioso. Poi la nota cambiò. Fu un progredire, una marcetta, allegra, un’aria deliziosa magari, ma ciò che mi colpì maggiormente fu il suo essere straordinariamente fuori luogo. Una marcetta con un clarinetto, nel pieno centro di Roma.
Non riuscivo a capire da dove venisse, e non riesco ancora a spiegarmi cosa mi provocò esattamente quella curiosa sensazione che è il pensare di essere diventato pazzo. Nessuno suonava il clarinetto nel quartiere, e lo sapevo benissimo; nonostante ciò, nessuno però sembrava sconvolto quanto me. Il rito della cena si consumava veloce o lentamente, lo sentivo bene, sentivo le forchette sbattere col fondo dei piatti, ma nessuno faceva caso alla melodia impossibile che veniva da quel clarinetto così agilmente celato, o, forse, realmente inesistente. Mi sporsi tanto dalla ringhiera che rischiai di cadere. Un suono di clarinetto, in queste vie? Signore, stai forse cercando di dirmi che devi aver sbagliato qualcosa?

giovedì 28 luglio 2011

28/07/2011 - 12.40

Stamattina sono stato in un posto immobile nello spazio e nel tempo che si chiama Cheremule, un paese di 500 abitanti, vicino a un vecchio, basso vulcano. Le piccole, strette vie avevano tutte il nome da generali dell'esercito, a parte una piccola piazzetta, con un murale e un piccolo obelisco, che è la Piazza degli Insorti Magiari. Un monte tondo tondo con degli alberi stranamente alti e verdi domina il paese, e l'unico suono, a parte i miei passi sul ciottolato, era la musica (vecchia, e davvero inconsueta) di un camion della frutta che si spostava di via in via in quel paese minuscolo, come se la gente non potesse camminare fino alla via più sotto, o più sopra, o fino al centro del paese. Da una scalinata di fianco alla chiesa dei santi Pietro e Paolo, poi, si vedeva tutta la pianura sottostante, gialla nel sole estivo. Erano lontane, ma mi sembrava di sentire le cicale.

Dopo mezz'ora di macchina sono arrivato a Osilo. Prima di arrivare, dalla lunga strada quasi dritta si vede, Osilo, arroccata su un monte isolato e a punta, una alta torre in cima, il cupo castello dei Malaspina. Il paese è tutto in salita, un borgo medievale dalle strade piccolissime e buie. Quando sono arrivato al municipio, ho guardato le case sotto di me. Per una ragione che non conosco, sui tetti delle case più vecchie erano stati posati dei grossi ciottoli tondi, grigi, o neri.
Poco dopo mi è arrivato un messaggio sul cellulare: «Osserva ciò che ti sta intorno. Se tu fossi un particolare di ciò che vedi, cosa saresti?», ma sono un tipo diplomatico, perciò ho risposto «Una vecchia roccia della chiesa romanica, bianca e nera».

giovedì 30 giugno 2011

Blue Sunset

«Quanto manca?»

Stavano seduti accanto alle baracche di lamiere, su un cingolato dismesso, fissavano il cielo oltre l’enorme cupola di vetro che li circondava, muti. Una voce registrata, in lontananza, cantava una vecchia canzone. Non erano certi che in quel punto così lontano ci fosse per davvero, casa loro. Ma poco ci pensavano, continuavano a guardare quel piccolo sole bianco finire il suo giro diurno. Non era stato così difficile adattarsi agli orari, le giornate duravano comunque più o meno 24 ore; le ore di sole erano meno luminose, certo, ma si erano abituati all’illuminazione neon della cupola.
L’ossigeno stava finendo.
Dalla Terra non rispondevano ormai da più di quattro settimane. Ogni giorno l’addetto alle telecomunicazioni, ogni ora, tentava il contatto, ma lo schermo restava nero come la notte, gli altoparlanti muti come un morto. Le provviste, quelle sarebbero bastate: la missione prevedeva l’impianto di un piccolo orto dentro la cupola, anche per ricreare un po’ di ossigeno, per quanto l’orticello non fosse sufficiente in quel verso; inoltre i magazzini erano pieni di cibarie in scatola. Il problema era l’aria. Ogni respiro, ogni parola, era letteralmente uno in meno prima della fine. Gli ultimi occupanti della colonia camminavano poco, parlavano raramente, respiravano a fondo. Un paio erano impazziti, uno si era impiccato con la cinghia dei pantaloni, gli altri erano semplicemente terrorizzati. Qualcuno ancora sperava in un arrivo improbabile e inatteso dei rifornimenti, in una ripresa delle telecomunicazioni, E’ stato solo un guasto temporaneo, stiamo arrivando, vi riportiamo a casa.
Il sole, distante più che mai, stava tramontando lentamente. Era un disco bianco e freddo, e intorno a lui il cielo era di un blu meraviglioso.

«Se qualcun altro non si ammazza, e smette di consumare ossigeno, altri due, massimo tre giorni.»

«Quindi, quest’anno niente spumante per capodanno?»

No, quest’anno al capodanno non ci sarebbero arrivati. Niente spumante, cene, conto alla rovescia, sorrisi - quelli ormai mancavano da tempo - niente di niente.

domenica 26 giugno 2011

Apologia

Nella mia vita, mi sono arrabbiato due volte. Contate. Non ho mai avuto una grossa rabbia, non ho mai odiato nessuno; le persone che ho amato le ho dimenticate, senza passare per quel periodo, un po’ patetico, dell’odio per chi, semplicemente, non ci ama; la ritengo di per sé una cosa molto egoista.
Mi ricordo che una volta ho scritto una poesia. Una poesia sciocca, da bambino, e bambino ero; si chiamava Le rose e ancora oggi, se mi impegno, la ricordo tutta. E’ stata la prima, e ancora non è arrivata l’ultima. Poche poesie, in generale, parlano davvero d’amore. Molte lo usano, e dicono tutt’altro. Le mie non facevano eccezione; ho vinto anche due o tre concorsi.
Poi lo sapete anche voi, cosa succede quando non ti senti più davvero bambino, e di anni ne hai 14, 15, e tutto ti sta stretto, e non parlo dei soli vestiti, e anche la radio, quella, non la sopportavo più. Mi trovavo tra le mani cassette su cassette, passate da chissà quali mani misteriose, non ho mai chiesto, ma mi è sempre rimasto il dubbio; mi dicevano «ascolta!» e io ascoltavo, e quello che sentivo mi piaceva, quelle chitarre graffianti e quelle urla belluine e tutta quella energia, un qualcosa di primitivo quasi si risvegliava in me, e mi ritrovavo a canticchiarle, a cantarle, a urlare, anche, è successo, quando credevo di essere da solo.
Tant’è che un giorno mi sentirono cantare, da una finestra, erano dei ragazzi più grandi: erano quelli che facevano le cassette, sapevano tutto qualunque cosa dei gruppi vecchi e nuovi, e molte cose poi non erano vere, e compravano le riviste, e le loro camere erano piene di foto di cantanti e chitarristi e teschi e capelli lunghi; avevano anche degli strumenti, chitarra, batteria e basso, solo quello serve, mi dicevano. Un giorno mi sentirono cantare, e me lo chiesero, di cantare con loro, così, per provare, dissero, mi hanno portato in una cantina piena di posacenere e altri poster, incontabili poster, e lì ho provato per la prima volta a cantare in un microfono; si può dire che non abbia mai smesso.
Ma soprattutto, non ho mai smesso di scrivere. Però non scrivo cose davvero cattive, come fanno gli altri gruppi. Le chitarre graffiano, le bacchette picchiano e si spezzano, ma io non sono arrabbiato. Scrivo di me, a volte, degli altri, più spesso, scrivo di guerre ed eroi, di marinai e stelle, di re in rovina e alieni anche alle volte, ho scritto tanto, ho scritto per tanti.
Poi dopo un po’ qualcosa è cambiato; certo, scrivo ancora, però ora li scrivo, i testi violenti, i richiami alla morte, i serpenti, i diavoli, infestano le pagine e la mia voce, che sta quasi andando via, ormai sono quasi arrivato, lo sento. Scrivo, ma non sono io.
Ho cambiato tanti gruppi nella mia vita, ho conosciuto un sacco di persone, e preso un sacco di sostanze, e fatto l’amore con tante donne, e ho visto tante di quelle città, di quei paesini, che ora non me li saprei ricordare tutti. Il pubblico è contento anche se parlo dei diavoli, il gruppo è contento, io un po’ meno; però, alle volte, dal palco vedo la gente sotto di me che si agita, e si schiacciano gli uni contro gli altri, si tuffano, si scontrano, sorrido: mi ricordano il mare.

sabato 5 marzo 2011

Jolly Gianni

Il signor Pieraccione da Rodi, dopo aver conseguito la tanto agognata laurea in Filologia e Letteratura Romanza in una famosa università della capitale, ha deciso di intraprendere la carriera più remunerativa e gloriosa per il suo titolo di studi.
Il signor Pieraccione da Rodi ha  deciso di fare il pirata.
Si dice che, con i soldi risparmiati in anni ed anni, abbia comperato una piccola barca a vela e, silenzioso nella notte romana, si sia imbarcato nel Tevere, per poi proseguire le sue bucanerie nel dorato mar Tirreno.
La sua barca, Beatrice, non fu della stessa idea. Sul primo ponte, infatti, fece sbattere l’albero maestro, e la barca si capovolse e si inabissò nel giro di mezz’ora. Testimoni oculari raccontano però di non aver mai visto nessuno così felice.

Del signor Pieraccione da Rodi, dopo quella notte un po’ sciagurata, si son perse le tracce; tuttavia si dice che, dal porto di Piombino, un marinaio dalle fattezze che ricordano molto il nostro traghetti abilmente le anime fino all’isola d’Elba.

venerdì 4 marzo 2011

Il genio

Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto. 54

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?". 57

(Inferno - XIX)

giovedì 3 marzo 2011

Rudi

Quel nome così estraneo, così strano, per cui nessuno nessuno l’aveva mai preso in giro, ma ne era certo, che l’avrebbero fatto, non gli era mai piaciuto.
C’era andato a fare una gita l’anno prima, li aveva portati, con la scuola, maestra Speranza, quella maestra così bella coi suoi capelli arancioni e le gonne coi fiori, ma che a volte sorrideva leggermente leggendo l’appello, lui se ne accorgeva, l’aveva vista, quando leggeva il suo nome.
Così, il piccolo decise di appiccare il fuoco all’ufficio dell’anagrafe. E cancellare tutti i nomi.

mercoledì 2 marzo 2011

Raccontino di Natale

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!» cominciò la guardia, guardandomi con occhi spiritati e indicandomi l’ingresso. Valerio mi prese per le spalle e mi spostò di lato, evitandomi l’urto con quella figura rabbiosa, poi disse per confortarmi: «Non preoccuparti, fa così con tutti, è di guardia nell’ingresso posteriore, ma sa che deve farci passare tutti, siamo i dirigenti, e se veniamo qui è perché ci hanno chiamati dai piani alti», poi si rivolse direttamente a lui: «Smettila di gridare, non veniamo qui dentro senza una ragione, e lo sai; non ricordi quando Michele vi ha fatto una bella strigliata per questi comportamenti?». La guardia s’immobilizzò e si sedette, con movimenti meccanici, lasciandoci passare, completamente muta.
Entrammo nel centro commerciale da una porta piuttosto in alto, e guardando verso il basso vidi come tante piccole formiche alla ricerca di una colata di glassa su un marciapiede d’agosto. Ma come è possibile tutto ciò? Chi permette questo? E gli uomini perché si riducono sempre, incessantemente, all’ultimo giorno, all’ultimo momento?
Mi ricordava quella volta in cui ho attraversato con il traghetto lo stretto di Messina, sopra Scilla e Cariddi, quando il mare non faceva altro che gettarsi sopra altro mare, senza tregua: c’era una moltitudine infinita di persone, non riuscivo a contarle; e tutti urlavano, e trascinavano delle enormi buste - da cui spuntavano nastri e lustrini e cartoline con disegni scontati - di peso, alcuni le facevano rotolare per aiutarsi, chissà che c’era dentro poi. Mi resi conto che il centro commerciale, visto da così in alto, aveva una forma vagamente circolare, e nel centro di questo avvenivano degli scontri furiosi tra quelli che portavano i bustoni appresso, si urtavano e poi, voltandosi indietro, urlavano l’un l’altro: «Perché tieni?» e «Perché burli?». Ora, pensandoci a posteriori, non sono ben sicuro del perché gli acquirenti dell’ultimo minuto parlino un ottimo italiano medievale, ma lì per lì mi sembrò perfettamente plausibile. Continuavano a camminare appesantiti, fin quando non raggiungevano il limite del cerchio e una delle porte del centro commerciale, e lì ripetevano le domande urlate e tornavano indietro, gli uni come se volessero comprare ancora di più, gli altri come se si fossero pentiti dei troppi acquisti, e volessero rimettere a posto qualcosa.
Valerio, che era rimasto a fianco a me a guardare, ma già era a conoscenza della situazione, mi disse: «Tutti quanti sono stati ciechi, e un po’ tocchi. Non hanno saputo spendere con misura, nei tempi e nei modi, e ora sono qui, che sbraitano gli uni contro gli altri». E io: «Valerio, allora credo che là sotto ci sia qualcuno che conosco». Ma lui: «Non credo tu lo riconosceresti: sono qui da talmente tanto tempo e sono talmente sotto stress che pochi son realmente riconoscibili, e loro comunque non riconoscerebbero te. Alcuni usciranno da qui a mani vuote, senza alcun regalo, altri invece col portafogli totalmente vuoto». Rimasi impietrito a fissare la scena, poi Valerio mi fece un cenno, e scendemmo le scale verso un’altra ala dell’edificio.
Qui trovammo uno spettacolo forse peggiore: davanti i vari box accoglienza numerose figure si agitavano, sbraitavano, si sbracciavano verso le commesse dal sorriso stanco, sbattevano le mani o i piedi, a volte entrambi, e si mangiavano le unghie con estremo nervosismo, mentre uno strano rumore, come di un sospiro stizzito e collettivo, si distingueva nell’aria. Valerio mi disse: «Daniele, questi, li riconosci, sono gli iracondi, ma occhio, guarda oltre: dietro di loro, dietro i clienti alle casse, ai servizi consumatori, ai banchi ricorsi, li vedi, stanno gli accidiosi: ora stanno pensando “Abbiamo comprato e ci siamo lamentati solo dentro di noi, silenziosamente, e ora non possiamo più reclamar niente, perché anche lo scontrino abbiamo buttato. Per questo sbuffiamo ancor di più.”
Guardandoli attentamente, evitammo tutti loro, passando poco dietro, finché non ci trovammo di fronte ad un ascensore.

sabato 26 febbraio 2011

Era una notte buia e tempestosa.

Era una notte buia e tempestosa.
Poi, per fortuna, è uscito il sole. Sono andato al mare tutto il giorno, e ho fatto amicizia con Gennaro, il signore baffuto del cocco, ma non so se si chiama davvero così. A cena ho mangiato degli spaghetti con le vongole, poi ho lavato i piatti e fatto una lavatrice, bianchi. Ora leggo un libro. Dalla finestra vedo alcune nuvole. Magari pioverà anche stanotte. Non importa: da dietro le finestre i fulmini sembrano autostrade di paesi lontani.

Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
4per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortunal od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
8di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
11con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
14sì come i’ credo che saremmo noi.



(Dante Alighieri)
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