giovedì 30 giugno 2011

Blue Sunset

«Quanto manca?»

Stavano seduti accanto alle baracche di lamiere, su un cingolato dismesso, fissavano il cielo oltre l’enorme cupola di vetro che li circondava, muti. Una voce registrata, in lontananza, cantava una vecchia canzone. Non erano certi che in quel punto così lontano ci fosse per davvero, casa loro. Ma poco ci pensavano, continuavano a guardare quel piccolo sole bianco finire il suo giro diurno. Non era stato così difficile adattarsi agli orari, le giornate duravano comunque più o meno 24 ore; le ore di sole erano meno luminose, certo, ma si erano abituati all’illuminazione neon della cupola.
L’ossigeno stava finendo.
Dalla Terra non rispondevano ormai da più di quattro settimane. Ogni giorno l’addetto alle telecomunicazioni, ogni ora, tentava il contatto, ma lo schermo restava nero come la notte, gli altoparlanti muti come un morto. Le provviste, quelle sarebbero bastate: la missione prevedeva l’impianto di un piccolo orto dentro la cupola, anche per ricreare un po’ di ossigeno, per quanto l’orticello non fosse sufficiente in quel verso; inoltre i magazzini erano pieni di cibarie in scatola. Il problema era l’aria. Ogni respiro, ogni parola, era letteralmente uno in meno prima della fine. Gli ultimi occupanti della colonia camminavano poco, parlavano raramente, respiravano a fondo. Un paio erano impazziti, uno si era impiccato con la cinghia dei pantaloni, gli altri erano semplicemente terrorizzati. Qualcuno ancora sperava in un arrivo improbabile e inatteso dei rifornimenti, in una ripresa delle telecomunicazioni, E’ stato solo un guasto temporaneo, stiamo arrivando, vi riportiamo a casa.
Il sole, distante più che mai, stava tramontando lentamente. Era un disco bianco e freddo, e intorno a lui il cielo era di un blu meraviglioso.

«Se qualcun altro non si ammazza, e smette di consumare ossigeno, altri due, massimo tre giorni.»

«Quindi, quest’anno niente spumante per capodanno?»

No, quest’anno al capodanno non ci sarebbero arrivati. Niente spumante, cene, conto alla rovescia, sorrisi - quelli ormai mancavano da tempo - niente di niente.

domenica 26 giugno 2011

Apologia

Nella mia vita, mi sono arrabbiato due volte. Contate. Non ho mai avuto una grossa rabbia, non ho mai odiato nessuno; le persone che ho amato le ho dimenticate, senza passare per quel periodo, un po’ patetico, dell’odio per chi, semplicemente, non ci ama; la ritengo di per sé una cosa molto egoista.
Mi ricordo che una volta ho scritto una poesia. Una poesia sciocca, da bambino, e bambino ero; si chiamava Le rose e ancora oggi, se mi impegno, la ricordo tutta. E’ stata la prima, e ancora non è arrivata l’ultima. Poche poesie, in generale, parlano davvero d’amore. Molte lo usano, e dicono tutt’altro. Le mie non facevano eccezione; ho vinto anche due o tre concorsi.
Poi lo sapete anche voi, cosa succede quando non ti senti più davvero bambino, e di anni ne hai 14, 15, e tutto ti sta stretto, e non parlo dei soli vestiti, e anche la radio, quella, non la sopportavo più. Mi trovavo tra le mani cassette su cassette, passate da chissà quali mani misteriose, non ho mai chiesto, ma mi è sempre rimasto il dubbio; mi dicevano «ascolta!» e io ascoltavo, e quello che sentivo mi piaceva, quelle chitarre graffianti e quelle urla belluine e tutta quella energia, un qualcosa di primitivo quasi si risvegliava in me, e mi ritrovavo a canticchiarle, a cantarle, a urlare, anche, è successo, quando credevo di essere da solo.
Tant’è che un giorno mi sentirono cantare, da una finestra, erano dei ragazzi più grandi: erano quelli che facevano le cassette, sapevano tutto qualunque cosa dei gruppi vecchi e nuovi, e molte cose poi non erano vere, e compravano le riviste, e le loro camere erano piene di foto di cantanti e chitarristi e teschi e capelli lunghi; avevano anche degli strumenti, chitarra, batteria e basso, solo quello serve, mi dicevano. Un giorno mi sentirono cantare, e me lo chiesero, di cantare con loro, così, per provare, dissero, mi hanno portato in una cantina piena di posacenere e altri poster, incontabili poster, e lì ho provato per la prima volta a cantare in un microfono; si può dire che non abbia mai smesso.
Ma soprattutto, non ho mai smesso di scrivere. Però non scrivo cose davvero cattive, come fanno gli altri gruppi. Le chitarre graffiano, le bacchette picchiano e si spezzano, ma io non sono arrabbiato. Scrivo di me, a volte, degli altri, più spesso, scrivo di guerre ed eroi, di marinai e stelle, di re in rovina e alieni anche alle volte, ho scritto tanto, ho scritto per tanti.
Poi dopo un po’ qualcosa è cambiato; certo, scrivo ancora, però ora li scrivo, i testi violenti, i richiami alla morte, i serpenti, i diavoli, infestano le pagine e la mia voce, che sta quasi andando via, ormai sono quasi arrivato, lo sento. Scrivo, ma non sono io.
Ho cambiato tanti gruppi nella mia vita, ho conosciuto un sacco di persone, e preso un sacco di sostanze, e fatto l’amore con tante donne, e ho visto tante di quelle città, di quei paesini, che ora non me li saprei ricordare tutti. Il pubblico è contento anche se parlo dei diavoli, il gruppo è contento, io un po’ meno; però, alle volte, dal palco vedo la gente sotto di me che si agita, e si schiacciano gli uni contro gli altri, si tuffano, si scontrano, sorrido: mi ricordano il mare.
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