Devo avere la testa fatta di metallo: coi primi caldi si espande, si allarga; forse anche i miei ricordi sono di ferro, o di mercurio, perché si dilatano e si fanno sentire. Questo mi succede ogni tanto nelle notti d'estate, quando la calura dei monti granitici sopra il mio paese si espande nell'aria e non mi fa dormire; quand'ero bambino mia nonna diceva che era di notte che le montagne respiravano. Solo qualche giorno fa mi è successo ancora. Erano le tre del mattino e più chiudevo gli occhi più percepivo il mio sforzo nel farlo, così ad un tratto ho deciso di alzarmi e andare a bere qualcosa. Avevo dimenticato di mettere l'acqua nel frigo; non c'è cosa che mi faccia più innervosire dell'acqua calda d'estate, così me la son presa con me stesso e mi son seduto in mutande nella sedia della cucina, in un'assurda punizione ostentata, cercando il punto in cui - e quei giorni dubitavo fortemente della sua esistenza - sarebbe passata l'unica brezza notturna. Come dicevo, la mia testa si allarga, ciò che c'è dentro si allarga e i pensieri e i ricordi si fanno prepotenti. Era tanto tempo, forse per comodità personale, giacchè i rimorsi non sono amici di nessuno, che non pensavo più a Maria.
Maria l'avevo conosciuta all'università, a Roma, un 30 di aprile. Nell'androne della facoltà di lettere il gruppetto del collettivo studentesco gridava parole al megafono, e una ragazza bassina e dai denti bianchissimi e dalla pelle bianchissima, ma appena arrossata dai primi soli primaverili, stava là davanti e capiva poco di ciò che sentiva. Così saltai la lezione di linguistica e le spiegai ciò che il collettivo stava dicendo, poi le spiegai come funzionavano le cose all'università; saltai la lezione di storia e le parlai di Roma, di come guardarla sempre con un occhio diverso, e del cannone del Gianicolo; quando mi sembrava di aver parlato troppo, lei sorrideva e mi chiedeva di continuare. Dovevo essere molto buffo mentre provavo a inserire quelle dieci o venti parole del mio tedesco per renderle il discorso più comprensibile; lei rideva molto, e io mi considerai simpatico. Saltai anche la lezione di letteratura, perché ormai s'era fatto tardi, e l'accompagnai a prendere il diciannove. Mi diede un bacio leggero sulla guancia, un bacio che non mi sarei aspettato e che mi rese euforico, ma soprattutto ebete; lei rise ancora (i denti e la pelle bianchissimi), si aggrappò con la sinistra - lo ricordo bene - al palo del tram e mi saluto con l'altra mano, con una carezza. Avrei preso spesso, spessissimo, nei mesi che seguirono, quel diciannove: con lei e senza di lei, col sole e con la pioggia, sereno o turbato.
Poi, come è consuetudine, i giorni passarono. Non avevo ancora deciso il perché, ma decisi di lasciarla. Ci vedevamo da pochi mesi, ma abbastanza da conoscerci bene e aver finito le cose da dirci, e da ricominciare a dircele da capo, senza l'euforia e la smania di piacere davvero delle prime settimane insieme. La invitai con gentilezza in un locale dall'arredamento rustico vicino casa sua, in cui facevano un ottimo aperitivo andaluso, e non so se lo facciano ancora. Già mentre facevamo quel piccolo tratto di strada a piedi lei si accorse che qualcosa non andava, così le dissi senza mezzi termini di volerla lasciare. Accampai scuse su scuse, la distanza, la Germania, l'università, i corsi e la laurea, ancora la Germania, senza dirle realmente niente. Maria rimase zitta tutto il tempo, guardandomi con la bocca quasi spalancata. Su quel marciapiede poi mi spinse contro il muro, e non so cosa esattamente la fermò dal continuare, dal fare una scenata. Poi mi disse, con una cattiveria che non le credevo possibile (i denti e la pelle, bianchissimi), «L'avevo sempre saputo, dall'inizio, da subito» e lì per lì pensai fosse una di quelle frasi che si dicono in queste situazioni, per la rabbia; ma nelle settimane dopo, riflettendoci, mi preoccupai, e pensai seriamente che forse davvero sapevo da subito che sarebbe finita così, e che davvero fosse palese nei miei gesti e nelle mie parole, e che tutti vedevano questo in me, da sempre. L'archetipo dei miei errori. Andò via senza dirmi una parola. Risalii sul diciannove e tornai verso casa. Quella notte dormii sonni agitati: sognai il Tasso con un lungo bastone che mi ammoniva severamente per il mio comportamento, e mi accusava anche di alcuni crimini che ero pressoché sicuro di non aver commesso, ma soprattutto mi ammoniva per il mio comportamento. Così la mattina dopo la chiamai. E quella dopo ancora. E ancora. Non rispose mai.
Ecco, tutto questo ho pensato, solo perché non avevo messo l'acqua nel frigo, una notte d'estate, qualche notte fa. Così, stizzito, ho preso una cassa d'acqua e ho messo tutte le bottiglie nel frigo, occupando tutti i posti vuoti, schiacciando e comprimendo tutto il resto. Soddisfatto, son tornato a letto, ma le zanzare mi hanno disturbato tutta la notte. Non ho dormito bene.